Gli Antichi Mestieri – Tradizioni Popolari

Nel nostro Paese si tramandano alcune tradizioni popolari che risalgono alle origini degli abitanti di queste terre e che sono il risultato di varie dominazioni e civiltà. Gli usi, i modi di vivere e di pensare, se apparentemente possono sembrare semplici azioni di vita quotidiana, senza nessun significato profondo, in realtà nascondono grandi insegnamenti e si rifanno alla conoscenza dell’uomo e della natura, della vita e della morte e possono essere considerate come citazioni di raffinata cultura.
Le tradizioni popolari vengono tramandate nei secoli per mezzo del linguaggio, delle leggende, dei canti e delle credenze. Le leggende Sersalesi, dette “rumanze”, sono ramificazioni della poesia romanzesca, novelle fantastiche con le varie figure.
I canti possono essere definiti racconti accompagnati dalla musica e illustrano azioni di uomini comuni, dedicati al proprio lavoro.

L’economia del passato era basata sull’agricoltura alla quale quasi l’intero paese, si dedicava a tempo pieno.
Questa attività era, quindi, necessaria per soddisfare i bisogni quotidiani delle famiglie poiché il grano era materia prima per l’alimentazione. La lavorazione dei campi si effettuava nei mesi di Giugno-Luglio, qui non vi lavoravano solo gli uomini ma anche le donne e i bambini che avevano compiti precisi.
Gli addetti ai lavori indossavano per tutta la lunghezza del dito , come protezione, dei ditali di canna e una “mantera” , ( grembiule di pelle), utilizzato per non tagliarsi durante la mietitura.

Oltre al normale utensile usato, la zappa, era molto frequente per alleviare il faticoso lavoro fisico l’utilizzo dell’aratro. Una delle prime strutture dell’aratro presenti era completamente in legno, solo il puntale era di acciaio, successivamente, questo, sempre trainato da animali, ha avuto una trasformazione infatti dal solo puntale, tutta la parte interiore “la vomera”, divenne tutta in acciaio, in questo modo si infilava con più facilità nel terreno per la creazione dei solchi.

Altri attrezzi utilizzati per la lavorazione manuale erano: “ zappune, zappetta, zappunialllu”, per estirpare le erbe estranee nelle piantagioni vi era “la furca”, per la falciatura “ l’arpa” per tagliare il grano e il fieno, “ u faciuniallu” (falce da mietitore).
La falce era utilizzata per la mietitura del grano, il quale veniva mietuto a piccole quantità chiamate “ghiarmiti”, più ghiarmiti formavano la “gregna”, che era un ammasso di grano, 3-4 gregne formavano un “cavone” ,questi cavoni trasportati in un’apposita area componevano la “timugna”.
La timugna si doveva lavorare per ottenere il grano, la lavorazione avveniva in modo manuale con la percussione delle forca o dei bastoni, per separare la spiga dalla paglia.
Le spighe venivano pulite all’aperto per separare il chicco dalla buccia usando dei “crivi” (setacci) per cernerli. Oltre alla battitura si utilizzava il bestiame che calpestava questo ammasso affinché divenisse facile la tritatura.

Per la vendemmia le vie del paese vedevano lunghe file di asini, cavalli e muli che trasportavano l’uva raccolta nei vigneti di famiglia nei vari “parmianti” esistenti all’interno dell’attuale centro storico.
A Sersale nei primi anni del ‘900 esistevano diverse botteghe, trattorie e bettole dette “A Frasca” con vendita esclusiva di vino dove trascorrevano il tempo libero la maggior parte degli operai, giocando a “murra” o a carte e discutendo di argomenti vari.
Sempre viva era la consuetudine, da parte dei produttori locali di “sdaziare” le botti del proprio vino; in tale occasione si usava “iettare u bandu” ( informare le persone di qualcosa), per pubblicizzare la vendita e i locali dove erano poste le botti sdaziate, contrassegnate con una “ frasca” alla sommità esterna della porta d’ingresso; si trasformavano in autentiche cantine, nelle quali trascorrevano allegramente il tempo libero specialmente gli operai e i contadini dopo una giornata di duro lavoro.

Nella casa di una volta era costituita dalla cucina, una stanza annerita dal fumo del “ffhocularu” (il caminetto), e dal vicino forno, vedeva la famiglia, raccolta intorno al fuoco nelle giornate invernali; le donne, la moglie e la vecchia nonna, stavano intente a filare con il fuso e la conocchia mentre i bambini rimanevano attenti ad ascoltare le favole del nonno, ricche di fantasia.
Accanto al fuoco coceva una “pignata” di legumi (vaso di terracotta), mentre alle travi vi erano appese le provviste di maiale e accanto su una cannizza pendente il pane fragrante cotto nel forno di casa. Nella stanza accanto, sparse sul pavimento o sotto il letto matrimoniale, c’erano le patate; sul “tavulatu” ( soffitta) si trovavano, adagiati sulle felci secche, le mele e le pere, che costituivano la provvista invernale.Un tempo non si aveva l’acqua in casa, ed era compito della donna provvedere a ciò. Queste, con un contenitore in legno, “u varrile”, con capienza di 25/30 litri, si recavano alle fontane pubbliche più vicine per riempirlo.

Di seguito sono elencati alcuni degli antichi mestieri:

"U Custuliari"

Dai primi e rudimentali vestiti si è assistito ad una continua evoluzione, più marcata nelle classi nobili ed aristocratiche; non per nulla nelle classi meno abbienti il sarto (in dialetto sersalese “U Custuliari”) cercava di vestire adeguatamente e non sfarzosamente la gente, prelevando modelli di taglia standard.
Nasceva, quindi, questo artigiano quando l’abito assumeva la sua vera forma in sintonia con la propria personalità. Dalle varie stoffe, provenienti dalle industrie del nord, se ne ricavava ogni tipo di indumento. I sarti sersalesi cucivano: camicie, pantaloni, (caratteristici i “Pantaloni alla Zuava” e per i bambini i famosi “ Pantaloni a Zumpa fhilici”), giacche, cappotti, “manti” e “cazunialli”. Caratteristica dei pantaloni e dei “cazunialli” era la “martingala”. Per le donne cucivano generalmente solo “l’abito a giacca” e gli abiti da sposa.
Recarsi dal sarto era una necessità in quanto la produzione di massa aveva standardizzato le taglie di ogni genere di vestito, non tenendo conto delle enormi differenze di misura tra la moltitudine di persone magre nei confronti delle poche obese.
Per sminuire il modo di vestire non adeguato alla persona i “custuliari” sersalesi amavano dire:

 

… è miagliu mò, mu i cauzi te vanu larghi ca quando crisci pue te vanu buani…”.

"U Scarparu"

L’arte del calzolaio, in dialetto sersalese detto “U Scarparu”, in tempi più lontani, ruotava tutto intorno alla costruzione ex novo delle scarpe e alla loro manutenzione. Il lavoro del calzolaio si svolgeva solitamente nella “Putiga”, se invece il clinte faceva parte di una famiglia agiata l’artigiano andava personalmente a casa di quest’ultimo a effettuare il proprio lavoro, qui restava, ospite della stessa famiglia, per i giorni necessari alla confezione delle scarpe per tutti i componenti del nucleo familiare.
In quei tempi, anni ’50 , il calzolaio lavorava giorno e notte per riuscire a mandare avanti la propria famiglia. Egli era affiancato mediamente da quattro “discipuli”, i quali cominciavano il loro apprendimento verso l’età di otto-nove anni. Il loro lavoro, inizialmente, consisteva nel preparare lo spago: lo inceravano con la cera, operazione che durava 10/15 minuti, e veniva effettuata infilando il “guardamanu “, poi legavano “la ‘nzita” alla punta dello spago, per renderlo più rigido e, quindi, da poter lavorare meglio. Man mano che acquistavano manualità nel lavoro iniziavano a fare le cuciture a mano sulla tomaia ossia imparavano ad “aggiuntare” per poi, gradatamente , acquisire destrezza nel levigare le suole e i tacchi con i diversi “lucidaturi”.
Dopo nove anni che questi ragazzi erano stati presso il mastro calzolaio, e quindi all’età di diciotto anni, avevano imparato il mestiere e potevano aprirsi una bottega.
Il lavoro del calzolaio si può rievocare con un vecchio ritornello che dice:

 

ssu bancariallu ‘ndè sa ‘lli guai: spacu, putiellu, zippe e cira e tic tac da matina alla sira”.

"U Fhaligname"

L’attività del falegname, chiamato “fhaligname”, di una volta certamente non era di tipo industriale o di serie. Il mobile, le porte, le finestre, anche se lineari secondo le epoche avevano l’odore del legno.
Anche il falegname, come gli altri artigiani, aveva con sé in media due discipuli. Questi ragazzi inizialmente si limitavano a pulire la bottega, a gettare i “iuffhuli” con dei carretti appositamente costruiti, poi scartavetravano il legname da lavorare e, man mano che acquistavano manualità, iniziavano a fare dei buchi sul legno. Solo dopo cinque-sei anni di costante apprendimento presso il mastro falegname erano idonei ad effettuare qualche lavoro.
Il lavoro del falegname, non solo era faticoso, ma a lungo andare il continuo contatto con la polvere e le vernici portava seri rischi per la salute dell’artigiano.
Si ricorda in maniera simpatica un vecchio ritornello cantato dalla suocera del falegname che diceva:

 

Si te pigli nu fhaligname…
illu va, illu vene
sempre l’ascia alle manu tena,
si le gira pè fantasia taglia lla capu a mie e a tie!

"U Cistaru"

Sin dalle origini Sersale assunse caratteri tipici di una comunità rurale, legata alla terra e al lavoro; il territorio si prestava alla coltura di varie piante e da queste se ne traeva profitto e se ne sfruttava l’uso. Anche il “Cistaru”( cestaio), come altri artigiani, usava il prodotto locale per la realizzazione di recipienti e contenitori legati alla comodità per gli usi quotidiani e per le varie attività agricole: “ciste, panari, fuscella”.
È da sottolineare che l’arte del cestaio, a Sersale, non era un lavoro, bensì un hobby, che si svolgeva a tempo perso e all’interno della propria famiglia, di conseguenza i cistari a Sersale non avevano i discipuli. Al contrario in alcuni paesi limitrofi come Mesoraca l’attività veniva svolta a livello industriale come scopo di guadagno.
Quest’attività veniva praticata maggiormente durante i mesi invernali poiché il legname da utilizzare era migliore per la lavorazione in questo periodo che non nei mesi caldi, peraltro l’artigiano aveva più tempo in quanto poco impegnato nei lavori dei campi.
Il lavoro del cistaru, un tempo molto utile, è ormai scomparso in quanto, con l’avvento dello sviluppo industriale e, quindi, con la nascita degli utensili in plastica e le nuove normative igieniche, quest’arte appare solo oggi come un divertente passatempo.

"U Scarpellinu"

L’antica e nobile arte dello scalpellino, in dialetto sersalese “Scarpellinu”, sconfina nel tempo per poi trovare massima espressione nelle sculture di grandi maestri.
In questa sede si evidenzia, quindi, l’arte di questo artigiano locale la cui attività, a Sersale, veniva effettuata spesso nei luoghi dove si trovavano notevoli quantità di granito: Spinola, Campanaro, Orderia, Nasari, Sila, ecc. Al contrario i piccoli lavori venivano eseguiti nelle botteghe.
L’attività dello scalpellino si eseguiva semplicemente con mazza, mazzuola, scalpelli e con l’ausilio dell’intelletto, era quindi un’attività molto dura. Gli strumenti da lavoro erano pochi e semplici, ma era necessaria una certa resistenza alla fatica e indispensabile la conoscenza specifica di tecniche di taglio e di scolpitura.
Lo scalpellino sersalese era molto ricercato, infatti svolgeva la sua opera anche nelle grandi città come Roma. Questo lavoro richiama un antico proverbio che dice:

 

“La goccia spacca la roccia”

"A Massara"

L’arte della tessitura risale a tempi antichissimi, infatti gli Egizi usavano il telaio a mano: attrezzo in legno che veniva sistemato orizzontalmente a terra senza quadro;
“l’ordituru” veniva teso tra due rulli in legno legati a quattro pioli infissi nel suolo.
Verso il XVI sec. a.C. comparve, sempre in Egitto, un telaio verticale con due rulli sorretti da una incastellatura, nacque così il quadro.
Il telaio con l’ordituru teso da pesi fu introdotto in Grecia XII sec. a.C. e certamente con questo attrezzo la mitica Penelope trascorse tanti anni a tessere la famosa tela in attesa del ritorno dell’amato Ulisse .
Al II sec. a.C. risale il telaio orizzontale con due rulli con fuzione di “sugli”: su quello posteriore venivano avvolti i fili dell’ordituru, su quello anteriore il tessuto fabbricato; in questo periodo vennero anche introdotti i “lizzi”, che divaricavano i fili in modo alternato.
Solo nel XIII d.C. in Europa i lizzi cominciarono ad essere alzati e abbassati da pedali come gli attuali telai in legno.
Anche nel nostro Paese l’arte della tessitura è stata praticata da molte donne per tanto tempo; esse con il loro lavoro assiduo e meticoloso riuscivano a garantire alla gente diverse qualità di stoffe necessarie per i vari usi.
A differenza degli altri artigiani citati finora la tessitrice aveva fino a trenta/quaranta discipule, le quali, essendo numerose e in base al lavoro che desideravano imparare, si alternavano metà la mattina e metà la sera, infatti oltre a seguire l’attività della tessitura apprendevano anche l’arte del filet , del ricamo, del taglio e del cucito.
All’inizio le discipule erano addette ad incannare il telaio, poi man mano che acquistavano praticità eseguivano l’intera procedura. Le discipule volenterose imparavano l’arte anche in due anni.
Al giorno d’oggi solo la perseveranza e l’amore per questa arte da parte della Sig.ra Franceschina Brindisi fanno si che questa cultura sia ancora presente nel nostro Paese e dia la possibilità di essere ancora tramandata.

"U Carvunaru"

Fra i tanti mestieri, a Sersale, era ricorrente quello del “Carvunaru”, per via delle lussureggianti foreste locali e lo sfruttamento delle immense foreste del Massiccio della Sila, che nel periodo estivo ( a stagione), portava intere famiglie a soggiornare in Sila, dove per qualche mese abitavano nelle “baracche o pagliari”.
L’arte del Carbonaio si basava nella trasformazione del legno in carbone temprato ed era lunga e minuziosa. La materia prima era il legno tagliato opportunamente con gli utensili da taglio: gaccia, runca e segune.
Il legno utilizzato per una qualità migliore di carbone era “l’ulice, e il carigliu”, nella stagione invernale, mentre quello non utilizzato affatto era il castagno, poiché non adatto a questo tipo di lavoro. Il periodo più adatto per fare le “carvunere” era da Maggio a Novembre, durante il quale si lavorava in Sila, comunque venivano avviate anche da novembre ad aprile nei dintorni del paese.
Questo mestiere veniva tramandato da generazione in generazione, non si avevano discipuli ma solo i cosiddetti “tagliaturi”, addetti a tagliare solo la legna e a portarla alla piazzola della carvunera, essi venivano chiamati solo in caso di necessità di personale.

"U Varrilaru"

Il “Varrilaru” era l’artigiano che realizzava recipienti e contenitori in legno di uso quotidiano, legati agli usi e costumi del paese e che rappresentavano unità di misura del passato.
Un tempo non esistevano le materie plastiche degli attuali recipienti, quindi, per la costruzione di contenitori, veniva utilizzato il legno. Principalmente si adoperava quello di castagno, poichè era il prodotto locale maggiormente diffuso, comunque per alcuni recipienti venivano usati anche l’abete e il ciliegio.
Il lavoro del varrilaru era complesso nella preparazione della materia prima e perfetto nell’incastro che oggi a noi può apparire banale e di facile realizzazione, ma che in effetti non lo è.
A noi non resta che ammirare quanto ha saputo creare l’ormai scomparsa tecnica manuale di un’antica maestranza.

"U Fhorgiaru"

La forgia, dal francese forge, è il luogo dove ancora oggi viene praticata, anche se con attrezzature diverse adeguate ai tempi, un’antica attività artigianale e dove un tempo si eseguivano pregevoli manufatti in ferro per lo più legati alla vita quotidiana e contadina del tempo.
Il lavoro della forgia in tempi passati era molto complesso e vario in quanto l’attività abbracciava varie competenze e il “fhorgiaru” doveva avere tecniche specifiche per ogni settore.
Si eseguivano lavori di fucinatura e di ferro battuto quali: utensili di lavoro per la campagna, per l’edilizia, oggetti per la casa, per l’industria, ecc.
Nella forgia vi lavoravano il Mastru, che aveva conoscenze specifiche nell’attività, il Summastru, figura predominante nella forgia con specializzazione tecnica e pratica per tutte le varie fasi di lavorazione e da lui dipendeva tutta la produzione, e i discipuli, giovani ragazzi che frequentavano la forgia per “imparare l’arte” e svolgere piccoli compiti di aiuto lavorando il ferro, il rame, l’acciaio e l’ottone.

"U ’Mbastaru"

Artigiano d’altri tempi, “ u ‘mbastaru”, indispensabile attività collegata alla vita agricola e silvana del tempo.
U ‘mbastaru era un artigiano che costruiva ‘mbasti, traini e carrozzini.

I ‘mbasti: erano delle selle rozze dove vi si attaccavano i carichi delle bestie da soma dei contadini che trasportavano quanto veniva prodotto nel corso dell’attività agricola di ogni giorno.

I traini: erano un tipo di calesse robusto idoneo per 2-3 muli o cavalli collegato a questi con le corde da imbracare per mezzo di: petturale, stracquale, cannizza, suttagola, parauacchi. Questi carri a due ruote erano utili per le grosse fatiche di trasporto dei tronchi della vicina ed immensa Sila.

I carrozzini: erano delle piccole carrozze a due posti trainate da due cavalli, utilizzate dalle persone più benestanti per spostarsi da un paese all’altro.

(Notizie tratte dai volumi: “SERSALE: STORIA DI UNA COMUNITA’ PRESILANA – Ed 2012 – Tipografia Scarpino Edizioni – dello Storico Prof. Michele Scarpino e “Sersale Rivivere Usi, Costumi e Antichi Mestieri”).